INTERVISTA AL REGISTA
SUGLI STILEMI DEL SUO IMPEGNO TEATRALE



Tommaso, puoi illustrare le caratteristiche salienti del tuo teatro?


«Un fattore che sicuramente contraddistingue il mio modo di fare teatro, è l’utilizzo di drammaturgie prevalentemente poetiche; non sono mai stato un grande appassionato del cosiddetto “teatro di prosa” e, per ovvi motivi, ho sempre privilegiato la poesia».


Il grande teatro, d’altronde, ha invariabilmente utilizzato il linguaggio della poesia, da Eschilo a Shakespeare.


«Sì. Nel mio piccolo, seguo il loro esempio».


—  E dal punto di vista delle scelte strettamente registiche, potresti individuare per noi le tue predilezioni?


«C’è anzitutto una risoluzione di fondo: quella della totale estraneità dal teatro ufficiale (sia esso borghese o di altro tipo) e dalle lobby dello spettacolo; parallelamente, mi sono sempre tenuto equidistante dal professionismo e dal dilettantismo, dato che mi appaiono entrambe delle scelte di comodo. Poi c’è sicuramente una forte propensione per la contaminazione di generi, che mi ha spinto — come attore — a relazionarmi con le altre tipologie di arte performativa, in particolare la musica e la danza, collaborando proficuamente con musicisti e danzatrici delle più varie estrazioni. Inoltre, sempre dal punto di vista strettamente attoriale, fin dall’inizio del mio percorso teatrale ho trovato insopportabile limitarmi a “recitare” (termine orrendo, peraltro) e ho cercato di muovermi in una direzione più integrale, lavorando parecchio sull’espressione corporea in modo da tentare di esprimere una organicità globale, in cui la fisicità attoriale possa rivestire un ruolo scenico di primario rilievo».


In questa scelta pare esserci lo zampino di Grotowski, o sbaglio?


«Per precisione e correttezza, direi che l’impronta proviene da Zigmut Molik, il quale fu il fondatore del “Teatr Laboratorium" insieme a Jerzy Grotowski, pur essendo assai meno noto di quest’ultimo. Fu Zigmunt ad assumersi la responsabilità di addestrare gli attori dell’ormai mitica compagnia di Wroclav e, in seguito, a formare molti altri attori in giro per il mondo, compreso il sottoscritto; la sua guida è stata per me preziosissima. Ma ci sono altre influenze ancora e, soprattutto, la costante esigenza di trovare un mio stile personale di stare in scena e di allestire spettacoli».


Nel tuo teatro si coglie pure una certa insistenza sull’aspetto femminile del divino, se così si può dire. Puoi dire come nasce?


«Nasce da un vissuto interiore, essenzialmente, mentre quel che posso dire a livello concettuale è che la cultura europea subisce ancora oggi gli influssi della concezione giudaico-cristiana di un Dio-Padre poco incline a occuparsi delle cose di questo mondo. Non a caso, la hybris — quella tracotanza giustamente condannata dagli antichi greci —  raggiunge il proprio apogeo proprio negli ultimi duemila anni della storia dell’uomo, in cui la civiltà è stata quasi interamente governata da una simile concezione, ove Dio è visto sostanzialmente come un essere antropomorfo radicalmente altro dalla propria creazione, non interessato a intervenire se non per giudicare dall’alto della sua privilegiata nuvoletta e per impartire una punizione post-mortem, al modo di un padre rigido e intransigente. Tutto ciò lo reputo inaccettabile.
Ovviamente, la mia è una generalizzazione utile alla comprensione, quindi, quanto  ho detto va inteso nel modo giusto. Sta di fatto che, in antitesi a questa concezione patriarcale (direi addirittura maschilista), la Divinità vista come una entità femminile corregge sensibilmente l’orrenda concezione dualista e dispotica che, di fatto, tende verso un importuno divario fra Terra e Cielo, tra Materia e Spirito, tra aldiqua e aldilà, tra naturale e soprannaturale».


«La Dea vista come Madre tende invece a occuparsi dei suoi figli in modo più amorevole, non è vero?

«Esatto: il principio è questo.  La Grande Dea adorata fin dai primordi (già nel Paleolitico troviamo rappresentazioni del suo culto sull’intero globo abitato dall’uomo) è, tra le altre sue manifestazioni, Madre Terra, Madre Natura, Mater Materia. Pertanto, la visione del mondo risulta essere radicalmente diversa da quella concepita da un Dio Padre extra- cosmico che crea il mondo dal nulla e che pare non occuparsene granché. Nel caso della Dea Madre, la stessa terra su cui poggiamo i piedi è una Sua forma viva e, quindi, va trattata con il massimo rispetto possibile. L’uomo, in questa prospettiva, appare come uno dei tanti esseri viventi, né superiore né inferiore alle altre forme di vita ospitate nel grembo di Madre Terra».


—  Effettivamente, siamo lontani dal Dio biblico che, nella Genesi, consegna la terra all’uomo dandogli il predominio sugli uccelli del cielo, sui pesci del mare e sulle bestie che camminano sulla terra!


«Assolutamente. Vedere Madre Terra come una forma della Dea genera spontaneamente un atteggiamento di rispetto verso tutte le forme viventi, siano esse animali, vegetali o minerali. E questo è solo il punto di partenza — si arriva infatti a vedere la nostra Terra come un luogo di realizzazione e di manifestazione progressiva degli infiniti poteri della Divinità stessa. Tutto ciò risulta in aperta controtendenza rispetto al mondo visto come una “valle di lacrime” o come un luogo di espiazione o, addirittura, come un pianeta da depredare e inquinare senza scrupoli. L’atteggiamento di dominazione antropocentrica si è rivelato devastante per questo pianeta e per tutti i suoi abitanti, uomini compresi. È tempo di cambiare radicalmente il nostro modo di rapportarci con il mondo, modificando i nostri modelli comportamentali in modo drastico. Umanamente non abbiamo alternative».


Si può rilevare un riferimento all’antispecismo nelle tue parole?


«Sì. Oggi si incomincia giustamente a condannare, accanto al razzismo e al sessismo, anche lo specismo, ovvero la sciagurata tendenza umana a considerarsi la specie eletta, che può quindi permettersi qualunque tipo di prevaricazione e di violenza nei confronti delle altre specie viventi. È un’assurdità che non può più essere tollerata.»


Tutto questo, in teatro, come lo esprimi?


«È ovvio che nessun concetto appare in modo esplicito nel corso delle rappresentazioni. Ogni considerazione viene lasciata al singolo spettatore, che è libero di trarre le conseguenze che vorrà. Il linguaggio teatrale non può essere didascalico, altrimenti cadrebbe nella retorica più becera, che è quanto di più lontano può esistere dall’arte. Il linguaggio teatrale è un linguaggio artistico. Credo che uno spettacolo teatrale debba essere un po’ come una fiaba per adulti: ciascuno può trovarci quello che vuole o che è in grado di recepire — e ogni interpretazione o lettura che ne scaturisce, resta valida per chi la elabora».