E R I K
MOTIVAZIONI DELLA SCELTA


Il regista Tommaso Iorco, in quasi trent’anni di impegno teatrale, ha messo in scena pressoché esclusivamente rappresentazioni basate su testi poetici dei più svariati autori; dei circa venti spettacoli complessivi realizzati e diretti durante la sua carriera, solo un paio contengono brani di prosa accanto a testi poetici — in tutti gli altri, la poesia regna incontrastata.

Teatro e poesia rappresentano infatti per Tommaso due elementi indissolubili. La fisicità attoriale e il sublime poetico sono per lui i due elementi principali della magia teatrale, le due magnifiche ali sulle quali la macchina teatrale può compiere il proprio volo fino a farsi entità vivente e innalzarsi nei cieli della più autentica creazione artistica. Il teatro del Novecento (ormai in rapida via d’estinzione) è caratterizzato dal cosiddetto “teatro di prosa”… Sarebbe quindi ora di tornare alla scrittura poetica, che ha reso glorioso il teatro nel corso di due millenni!

L’amore che Tommaso nutre per Sri Aurobindo lo ha certo spinto a ricorrere non di rado alla sua poetica ineguagliabile, inserendo nei propri spettacoli suoi estratti lirici o epici (principalmente da Savitri e dalle poesie liriche della maturità); inoltre, ha tradotto in versi italiani l’intera opera poetica di questo divino Vate del futuro, compresi ovviamente i cinque testi teatrali, originariamente scritti in inglese (in pentametri giambici sciolti — il celebre blank verse) e tradotti in endecasillabi italiani. Questi sette volumi (pubblicati tra il 2006 e il 2011 presso i tipi di aria nuova edizioni) recano peraltro i testi originali a fronte, come d’obbligo per la grande poesia.

Viene a questo punto da chiedersi: come mai, delle cinque suddette drammaturgie, la scelta è caduta proprio su Erik? E, ancor prima, sorge un’altra domanda: perché soltanto adesso — dopo tre decadi di teatro — dedicarsi alla messinscena di un’opera teatrale di Sri Aurobindo?

Tutti questi anni di impegno teatrale sono considerati da Iorco come propedeutici alla realizzazione di una (almeno una, ma noi speriamo che non ci si fermi qui!) delle opere teatrali del suo autore preferito. Prima non si sentiva sufficientemente pronto, evidentemente. Solo dopo questa lunga gavetta si sente pienamente all’altezza di realizzare una regia esemplare.

Torneremo su questo punto. Per il momento, soffermiamoci un poco sulla differenza abissale che separa il teatro di prosa da quello di poesia. Il giudizio critico che Antonio Gramsci espresse, nei suoi “Quaderni del carcere”, sul maggiore autore teatrale italiano del Novecento — Luigi Pirandello — offre un’analisi interessantissima, che può agevolmente estendersi a tutto il Novecento teatrale, non solo italiano (giganti come Bertold Brecht, Samuel Beckett e Dario Fo non fanno eccezione). Ecco le parole illuminanti di Gramsci: «Morto Pirandello (cioè, se Pirandello oltre che come scrittore, non opera come capo-comico e come regista) cosa rimarrà del teatro di Pirandello? Un “canovaccio” generico, che in un certo senso può avvicinarsi agli scenari del teatro pregoldoniano: dei “pretesti” teatrali, non della “poesia” eterna. Si dirà che ciò avviene per tutte le opere di teatro e in un certo senso ciò è vero. Ma solo in un certo senso. È vero che una tragedia di Shakespeare può avere diverse interpretazioni teatrali a seconda dei capocomici e dei registi, cioè è vero che ogni tragedia di Shakespeare può diventare “pretesto” per spettacoli teatrali diversamente originali: ma rimane che la tragedia “stampata” in libro, e letta individualmente, ha una sua vita artistica indipendente, che può astrarre dalla recitazione teatrale: è poesia e arte anche fuori del teatro e dello spettacolo. Ciò non avviene per Pirandello: il suo teatro vive esteticamente in maggior parte solo se “rappresentato” teatralmente, e se rappresentato teatralmente avendo il Pirandello come capocomico e regista. (Tutto ciò sia inteso con molto sale).» (Quaderni dal carcere, IV.134).

Cum grano salis, dunque, osserviamo che i testi teatrali di Pirandello — nella seconda metà del Novecento — sono stati rappresentati da diversi registi (ricordiamo, in particolare, alcune memorabili interpretazioni curate da Giorgio Strehler); ma chi, oggi, legge ancora tali opere? Chi ne riconosce un valore disgiunto dalle (sempre più rare) rappresentazioni teatrali? Si tratta di domande retoriche, evidentemente; le quali possono facilmente essere estese a qualunque altro scrittore teatrale del Novecento (le eccezioni sono rarissime — citiamo, per esempio, Murder in the Cathedral di Eliot, non a caso una drammaturgia in versi, scritta però da un poeta lirico prestatosi al teatro per un unico esperimento, per quanto riuscito). Mentre, a distanza di secoli, i testi teatrali di Shakespeare, di Eschilo, di Calderón, di Molière vengono ancora letti e apprezzati come fatto poetico in sé, oltre che come capolavori teatrali.

Sempre cum grano salis, rileviamo che il testo teatrale, anche quando scritto in poesia, ovviamente nasce per essere messo in scena. Il sublime poetico può indubbiamente essere apprezzato in modo autonomo, separato dalla sua realizzazione scenica, tuttavia la forza e la bellezza del suo afflato artistico possono essere colte nella loro interezza solo a teatro (d’altronde, se non fosse così, perché mai i loro autori avrebbero avvertito l’esigenza o l’ispirazione a poetare per il teatro? — Avrebbero potuto più opportunamente orientarsi verso i generi epico e lirico). Quante volte è capitato, dopo avere assistito a una rappresentazione particolarmente geniale di King Lear, pur avendola letta e riletta più volte nel corso degli anni, che uscendo da teatro abbiamo detto a noi stessi: “Ma che cosa ho letto finora? Vi sono una quantità di dettagli (per nulla trascurabili e secondari) che ho colto solo adesso nella loro pienezza!”. Ma, al di là della comprensione intellettuale, l’elemento di maggiore rilevanza si esplica nel fatto che la forza e la magia teatrale rendono vivo e compiutamente artistico il cosiddetto “morto orale”.

Dopo questa digressione — fondamentale, per noi — resta ancora da capire perché Tommaso Iorco ha scelto proprio Erik, anziché un’altra delle quattro drammaturgie realizzate da Sri Aurobindo.

Come facilmente presumibile, le motivazioni sono molteplici. Proviamo a riassumere almeno le principali.

Anzitutto, vi sono fattori per così dire pragmatici: di tutte le opere teatrali di Sri Aurobindo, questa è certamente la meno complessa da rappresentare, per via del numero relativamente limitato dei personaggi previsti (i quali, peraltro, rivestono quasi tutti caratteristiche di rilievo, rendendo pressoché evanescente la linea di demarcazione che usualmente separa i ‘personaggi principali’ dai ‘personaggi secondari’). Senza contare le comparse (talvolta piuttosto ingenti), Perseo il liberatore annovera 28 personaggi, I visir di Bassora ne comprende 25, per poi calare un poco in Rodogune con i suoi 17 personaggi, e Vasavadatta con 16. Erik, per contro, ne prevede solo 8 (e qualche comparsa). Individuare gli attori giusti, motivarli, lavorare con loro durante le prove in modo da indurli a creare qualcosa di vivo e di artisticamente compiuto, richiede una dedizione che lo spettatore (a meno che non sia del mestiere) nemmeno lontanamente è in grado di immaginare, oltre al tempo necessario per plasmare organicamente la creazione artistica (riprenderemo altrove questo aspetto legato al fattore temporale; qui basti accennare al fatto che le compagnie teatrali “di regime” — quelle cioè sovvenzionate dal sistema e a esso asservite — allestiscono un nuovo spettacolo in tre o al massimo quattro mesi di prove, mentre il più grande riformatore dell’arte attoriale — Stanislavskij — riteneva IMPOSSIBILE creare una vera opera d’arte scenica in un tempo così breve).

Vi è poi una motivazione che attiene al particolare tipo di scrittura poetica che Sri Aurobindo utilizza in questo dramma — accorgimento artistico che tanto ha affascinato Tommaso sin dal primo suo confronto con il testo. Il discorso si farebbe troppo tecnico e, pertanto, ci limitiamo ad accennare due elementi fondamentali. Il primo riguarda la quasi totale assenza di enjambement (ovvero, come è noto, la riduzione o, talvolta addirittura, la soppressione della pausa di silenzio generalmente presente tra due versi — la scrittura poetica teatrale, per forza di cose, fa un largo uso di tale espediente, proprio per rendere il discorso scorrevole e naturale, avvicinandosi al parlato pur mantenendo l’afflato poetico): Sri Aurobindo pare abbia voluto realizzare un’opera teatrale (l’unica, tra le sue drammaturgie — peraltro, non ci risulta che altri autori teatrali abbiano mai tentato una simile impresa, tranne forse i grandi tragici greci) ove ciascun verso può essere fatto vibrare nel modo che si converrebbe alla poesia alta, ovvero mai (o quasi mai) rinunciando alla pausa di silenzio di cui sopra (fondamentale nel permettere alla magia poetica contenuta in ogni singolo verso di svelare il suo pieno e più intenso vibrato); ciò è stato possibile per via del fatto che i personaggi del dramma possiedono tutti una natura elevata, quasi epica, che permette loro di esprimersi con magniloquenza, pur mantenendo comunque tutte le caratteristiche di un linguaggio teatrale: vivo, fluido, spontaneo, pienamente credibile e comprensibile. Il che è un vero miracolo!

Il secondo elemento che teniamo a mettere in rilievo è direttamente collegato al primo: in questo testo teatrale non si trova nemmeno una frase in prosa; occorre infatti ricordare che, generalmente, un testo teatrale in versi contiene sovente al suo interno personaggi che si esprimono in prosa, e tale effetto risulta fortemente efficace nel creare il giusto contrasto tra personaggi rozzi, volgari, per l’appunto prosaici, e quelli nobili, eroici, che si esprimono esclusivamente tramite la sonorità poetica; quando, in una medesima scena, vi sono personaggi prosaici e altri che si esprimono in poesia, l’effetto che ne risulta è di grande suggestione (purché, ovviamente, la mano dell’autore sia quella di un autentico genio drammaturgico). Troviamo tale mirabile espediente in Shakespeare, e lo troviamo pure in Sri Aurobindo, a eccezione — per l’appunto — di Eric (e di Vasavadatta). In Perseo il liberatore, per offrire un esempio, subito dopo il prologo, in cui la dea Pallade Atena e il dio Poseidone si confrontano su un margine roccioso delle coste siriane facendo uso del più raffinato linguaggio poetico, nella scena immediatamente successiva irrompono esattamente nel medesimo luogo due personaggi umani (un servo e un’ancella) che si esprimono con un linguaggio prosaico e popolano — il contrasto è mirabile nel palesare allo spettatore due atmosfere nettamente divergenti: una celestiale, eterea, l’altra terrigna, sulfurea. Questo invece, come si diceva, in Eric non accade mai: tutto si svolge in una atmosfera di pura luminosità e bellezza. Nell’impeccabile dettato poetico di Eric, Sri Aurobindo non ha dovuto mostrare la minima ombra di bassezza allo scopo di mettere in risalto lo splendore irradiante dai personaggi che prendono parte all’azione scenica… Ennesimo miracolo della poesia di Sri Aurobindo!

Come si diceva, i suddetti elementi (tra gli altri) hanno grandemente intrigato Tommaso — anzitutto come poeta, nel compulsare il testo e calarsi con la propria immaginazione nell’azione scenica; quindi, come traduttore, cercando di restituire queste stesse caratteristiche nei versi italiani da lui realizzati; infine, in qualità di regista, giungendo a cogliere la sfida di creare una rappresentazione basata su un capolavoro teatrale di tale perfezione.

Forse dovremmo pure soffermarci (seppure un poco controvoglia) sulle motivazioni contenutistiche: purtroppo, in teatro ci si ostina ancora (dopo la deriva novecentesca) a cercare a tutti i costi un “messaggio” (come se il bello artistico dovesse essere costretto a ridurre la sua meravigliosa fascinazione entro gli stampi ristretti di un significato!); ma non ci si fraintenda: con ciò non vogliamo dire che il teatro deve essere frivolo, anzi, tutt’altro! L’unico nostro disappunto sta nel fatto che il cosiddetto “messaggio”, nella nostra epoca ultrarazionaloide, ha preso il sopravvento su tutti gli altri elementi, i quali sono in realtà, come cennato, di gran lunga più importanti al cospetto di una autentica opera d’arte; quando ascoltiamo la Nona di Beethoven, è la sublime vibrazione musicale che affascina ed esalta e trasporta in una sfera divina — il “messaggio” di armonia universale che la sinfonia veicola è certo importantissimo (anzi, è un tutt’uno inscindibile con la fascinazione musicale), ma non costituisce il vero miracolo artistico di questo capolavoro; esistono autori di prosa letteraria che hanno trattato l’argomento della pace e dell’armonica convivenza in modo assai più esaustivo e dettagliato… Non è una trattazione filosofica, né tantomeno dei sermoni che esigiamo dall’arte (non a caso, Beethoven si è servito di una poesia di Schiller, non di un trattato di Rousseau): semmai, ci aspettiamo di essere trasportati il più concretamente possibile in un mondo di pura bellezza, di viva luce e armonia!

Tornando al nostro Erik, si possono certamente ravvisare nel suo dettato drammaturgico verità la cui importanza risulta particolarmente attuale (sui quali avremo modo di soffermarci in altri articoli appositamente realizzati), rispetto alle altre quattro suddette drammaturgie che, pur veicolando valenze non meno elevate, al momento riteniamo non abbiano ancora un pubblico sufficientemente pronto ad accoglierle nel modo che meritano (ci viene in mente, primo fra tutti, il già citato Perseus the Deliverer — il quale, peraltro, richiederebbe capitali quasi proibitivi per essere messo in scena nel modo appropriato; inutile constatare a che punto, oggi, i detentori della ricchezza mondiale siano rivolti unicamente al proprio microscopico ombelico, quando non ancora più in basso: basta guardarsi intorno per constatarlo dai risultati davvero avvilenti, con un proliferare sempre più evidente di ingiustizia, in cui il divario tra ricchi e poveri va allargandosi a dismisura, e in cui il cinismo, la spietatezza, la crudeltà e la sopraffazione dominano a tutti i livelli).

Vi è, in definitiva, l’esigenza di allestire una rappresentazione sufficientemente esemplare, anche per dissuadere eventuali registi nel cadere nei vecchi (e ormai improponibili) stereotipi teatrali novecenteschi allorché decidessero anch’essi di prendere in considerazione una qualunque tra le opere teatrali di Sri Aurobindo — opere che, benché scritte nel Novecento, proiettano i propri splendori in quella tanto attesa “poesia del futuro” che il loro Autore ha voluto mirabilmente preannunciare e iniziare, confermandosi anche in questo campo come un autentico e genialissimo Pioniere.