PERCHÉ E PER CHI AMIAMO FARE TEATRO


«Ci sono (e ci saranno sempre) dei furfanti
che fanno il cinema e il teatro commerciale,
con lo scopo di divertire (per incassare),
e ci sono (e ci saranno sempre) degli imbecilli
che fanno il cinema e il teatro per educare (senza incassare).
In realtà il cinema e il teatro d'autore
non sono fatti per divertire né per educare.»
Pier Paolo Pasolini (17.11.1975).

Per poter rispondere in modo sufficientemente esaustivo alla domanda utilizzata come titolo, occorre entrare in una serie di scatole cinesi e affrontare anzitutto una prima questione fondamentale: che cosa è teatro e che cosa non lo è?

Peter Brook sintetizza piuttosto efficacemente: «Posso prendere un qualsiasi spazio vuoto e chiamarlo palcoscenico vuoto. Un uomo attraversa questo spazio vuoto mentre qualcun altro lo guarda, e questo è tutto ciò di cui ho bisogno perché si inizi un atto teatrale» (‘Lo spazio vuoto’).

Purtroppo, nel cosiddetto “teatro borghese” (quello dei mestieranti e delle grandi compagnie teatrali che vivono sui finanziamenti pubblici) — è rarissimo trovare autentica vita. Si continua a ripetere (“re-citare”, per l’appunto!) frasi morte e pochissimi sono gli attori e i registi capaci di infondervi il necessario alito-di-vita. Questo perché la principale motivazione (e spesso l’unica) che sta alla base del teatro ufficiale e professionale è il denaro (“incassare”, per dirla con Pasolini).

D’altra parte, il cosiddetto “teatro dilettantistico” ha come principale motivazione lo svago: gli attori e i registi dilettanti cercano di divertirsi e, possibilmente, di far divertire il loro pubblico, senza altre pretese e senza alcun reale intento artistico.

Vi è poi una terza categoria di teatranti, etichettati come “teatro d’avanguardia” oppure “teatro sperimentale”, “di ricerca” o con altri epiteti ancora. Si tratta, il più delle volte, di titoli altisonanti (e di pretenziose messinscene) che celano una mancanza di autentico talento e impegno. Rarissimi, anche qui, quanti riescono a esprimere qualcosa di reale valore.

Ecco perché, oggi, la cosa più prudente da fare è starsene al riparo da queste — e altre eventuali — etichette (e dai mondi che gravitano attorno a esse) per cercare di realizzare qualcosa di realmente onesto e genuinamente artistico.

Occorre pertanto interrogarsi, come prima cosa, sul senso del proprio ‘fare teatro’ e sui significati che sottostanno a un impegno teatrale che non affondi le sue radici nella vuota e vanagloriosa esteriorità (far soldi, farsi un nome, celebrare il proprio ego, ecc.).

Ascoltando le parole di alcuni grandi teatranti, possiamo forse trovare gli stimoli per vivificare l’espressione teatrale in un mondo in cui l’arte e la cultura sembrano sempre più agonizzanti.

Eugenio Barba stimola una prima riflessione: «Vi sono tre aspetti che ogni cultura deve possedere: la produzione materiale attraverso delle tecniche, la riproduzione biologica che permette di trasmettere l’esperienza da generazione a generazione e la produzione di significati. Per una cultura è essenziale produrre significati. Se non li produce non è una cultura. Diciamo spesso che la vita è un viaggio, un cammino individuale che non comporta necessariamente mutamenti di luogo. Sono gli avvenimenti e il fluire del tempo a mutare una persona. In tutte le culture sono stati fissati alcuni momenti che segnano la transizione dall’una all’altra tappa di questo viaggio. Quei pochissimi che noi chiamiamo i ribelli, gli eretici, o i riformatori del teatro sono i creatori di un teatro di transizione. E la transizione è una cultura.» (‘La canoa di carta’).

Qualunque cultura — lo sappiamo bene — è inevitabilmente legata al processo della comunicazione. E, oggi, che i mass-media hanno fagocitato quasi per intero i canali comunicativi (controllando, manipolando, livellando verso il basso o distruggendo la comunicazione sul vero senso del nostro essere-in-viaggio), si rivela ancora più determinante avere la consapevolezza di quali sono gli strumenti di una comunicazione genuina, il più possibile priva dei filtri deformanti tipici di quella finta comunicazione che appare come una scatola priva di contenuto.

Lee Strasberg mette a nudo un punto nevralgico: «La nostra società ha speso così tanto tempo e ha raggiunto risultati così sorprendenti con la scoperta di nuovi processi meccanici di comunicazione, ma abbiamo chissà come dimenticato che il processo di vivere richiede l’abilità di reagire, entrare in contatto e comunicare la propria esperienza a un altro essere umano. Il problema dell’espressione è stato trattato come un processo puramente meccanico, che implica la voce, il linguaggio, la retorica, piuttosto che un mezzo per condividere il proprio modo individuale di avere esperienza. Solo i veri artisti sono riusciti a interrompere questo circolo vizioso usando la loro sensibilità e le loro capacità peculiari nel comunicare le loro esperienze. Tutti gli esseri umani hanno ancor più bisogno di questo, se la vita non deve ridursi a una “recita di ruoli” che molti psicologi e perfino gente di teatro, considera un modo di vivere.» (‘Il sogno di una passione’).

La cosa più sorprendente è l’atteggiamento di quanti, smaniosi di emergere dall’anonimato per motivi di affermazione egoica (che può sconfinare nella megalomania), scimmiottano una qualunque arte senza padroneggiarne la tecnica. Come, per fare un esempio, i milioni di sedicenti poeti che, senza conoscere nulla di metrica e, per di più, avendo letto pochissima poesia, si illudono di essere dei poeti solo perché vanno a capo di tanto in tanto nel bel mezzo di una frase scritta con la mente razionale o emotiva, senza alcun ricorso a una genuina ispirazione che, sola, è in grado di determina il reale valore del verbo poetico.

Thomas Richards, che ha assistito per parecchi anni l’ultima fase di ricerca di Jerzy Grotowski, ha individuato dentro di sé sia il morbo del dilettantismo, sia il morboso compiacimento cui cadono preda quanti si ostinano a considerarsi dei “geni incompresi”; e, in antitesi al pregiudizio comune secondo cui i grandi artisti sono ‘tutto genio e sregolatezza’, puntualizza l’importanza di padroneggiare il più perfettamente possibile la tecnica: «È facile sognare di fare qualcosa di profondo. È molto più difficile fare effettivamente qualcosa di profondo. Non ci sarà canale per la nostra forza creativa senza tecnica. Tecnica significa artigianato, conoscenza pratica del mestiere. Quanto più forte è la tua creatività, tanto più forte deve essere il tuo mestiere, per arrivare all’equilibrio necessario che lascerà scorrere pienamente le tue risorse. Il compimento del proprio mestiere deve servire qualcosa d’altro che non la propria vanità o il proprio orgoglio. Certe persone, attraverso i loro sforzi tenaci, trasformano questo sentimento in azione. Costoro non stanno fermi, ma si impegnano in una lotta costante per la propria crescita personale, senza soccombere mai alla stagnazione. Una crescita cosciente non avviene accidentalmente né si mette in moto da sola. Queste persone lavorano con costanza e con i loro sforzi tentano di servire qualcosa al di sopra di se stessi. Un regista deve essere come un cacciatore esperto, e sentire dal di dentro il processo dell’attore, con la propria intuizione. L’arte dell’attore non è necessariamente limitata a situazioni realistiche, giochi sociali, vita quotidiana. A volte, più alto è il livello e la qualità dell’arte, più essa si allontana da questo fondamento realistico, entrando nei domini dell’eccezionalità.» (‘Al lavoro con Grotowski’).

Vi è poi un aspetto legato alla specifica natura dell'attore, che qui intendiamo unicamente suggerire, facendo ricorso a un pregnantissimo aforisma di Tommaso Iorco: «Gli attori si ostinano a mettersi delle maschere sopra la loro abituale, quando avrebbero invece il grande privilegio di potersi mettere a nudo.» (‘Aforismi eretici’, La Calama editrice).

Lo stesso Pasolini, che non era un teatrante ma che era immensamente affascinato dal teatro, negli anni della sua “Affabulazione” si rese conto in prima persona della complessità dell'arte scenica: «sempre più mi accorgo che fare teatro non si improvvisa, è un'impresa che richiede l'impegno di una vita intera».

Va anche detto, a questo punto, per non incorrere in fraintendimenti odiosi e aberranti, che la disciplina richiesta al teatrante non può essere imposta dall’esterno né deve mai assumere la rigidità di una esercitazione militare; ogni tentativo di ingabbiare la creatività distruggerebbe la spontaneità necessaria a ogni libera (e autentica) espressione artistica. E allora chiediamo a Dario Fo di venirci in soccorso con una necessaria precisazione: «Viviamo in una società in cui l’insegnamento scolastico è predisposto e organizzato per schemi a gabbia. Siamo costretti a scrivere addirittura tra righe e quadretti, a rientrare nelle cosiddette metope stabilite. [...] Ogni volta che mi trovo davanti a dei giovani che mi chiedono di dar loro consigli su come impossessarsi del mestiere, ripeto: “La prima regola, nel teatro, è che non esistono regole”. Il che non vuol dire che si debba andare allo scarampazzo, vuol dire che ognuno è libero di scegliere un metodo che gli permetta di raggiungere lo stile, cioè un rigore dialettico efficace. E poi, ordine è una parola che ci ricorda una orrenda progressione di termini: l’ordine costituito, l’ordine sociale, l’ordine poliziesco, ecc. — per non parlare degli ordini religiosi.» (‘Manuale minimo dell’attore’).

Vi è poi da considerare l’eccezionalità dell’evento teatrale, che è UNICO e IRRIPETIBILE, a differenza di altre forme espressive (il cinema in primis) che fanno della riproduzione tecnica il loro punto di forza, perdendo quello che Walter Benjamin definì “l’aspetto auratico” di un’opera d’arte (infatti il cinema non è e non potrà mai essere propriamente considerata una forma di arte, ma una espressione che — al suo meglio — utilizza disparati elementi artistici, talvolta con grande gusto e genialità). La riproduzione fotografica del quadro della Gioconda — fosse anche in 3D e ad altissima definizione — non potrà mai sostituire il quadro: manca l’essenziale! Chi ha potuto immergersi dal vivo nel ritratto di Monna Lisa, con unità e partecipazione empatica, sa perfettamente a cosa si allude.

Ecco le parole testuali di Benjamin, tanto più incisive e interessanti quanto più si tiene conto che sono scaturite dalla penna di un filosofo materialista: «Anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un elemento: l’hic et nunc dell’opera d’arte — la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova. Ciò che viene meno è insomma quanto può essere riassunto con la nozione di “arte”; e si può dire: ciò che vien meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è l’aura dell’opera d’arte.» (‘L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica’).

Per assistere a un evento teatrale con la massima consapevolezza possibile e, di conseguenza, trarne il più alto beneficio artistico, occorre essere anzitutto coscienti del fatto meraviglioso che si sta prendendo parte a un evento unico e irripetibile.

Questa consapevolezza, ovviamente, non è sufficiente di per sé. Costituisce il punto di partenza, non il punto d’arrivo. Occorre che il regista scelga di mettere in scena qualcosa di reale valore, capace di lasciare in ogni spettatore sensibile la netta sensazione di avere partecipato a un evento straordinario, destinato a incidere un segno indelebile nella propria coscienza, come un seme che produrrà i suoi frutti nei differenti terreni in cui attecchisce. Altrimenti, il teatro resta un sepolcro imbiancato senza alcun valore effettivo.

È sempre bene chiedersi, quando si decide di allestire uno spettacolo, a chi si intende rivolgersi, a quale tipo di pubblico... Un pubblico attento, fortemente motivato e interessato, attivamente coinvolto, oppure una massa amorfa di morti viventi che hanno la sola virtù di pagare il biglietto e di non fare troppo chiasso.

Bertold Brecht ha espresso il concetto molto bene e con la sua consueta ironia: «Entriamo in una di quelle sale e osserviamo l’effetto che essa determina sugli spettatori. Guardandoci attorno, vedremo figure pressoché immobili in uno strano atteggiamento: i loro muscoli sembrano tesi in un grande sforzo, quando non sono rilassati come per una grande spossatezza. Fra di loro quasi non comunicano. Sono riuniti come tanti dormienti, ma dei dormienti che fanno sogni inquieti, perché — come dice il popolo dei sognatori di incubi — stanno sdraiati sulla schiena. È vero che hanno gli occhi aperti; ma non guardano, fissano; e neppure ascoltano, ma sono tutt’orecchi. Tengono gli occhi fissi sulla scena come ammaliati, espressione che ci viene dal Medioevo, dal tempo delle streghe e dei chierici. Guardare e ascoltare sono attività, all’occasione anche divertenti; ma questa gente, benché aliena da qualsiasi attività, sembra materia passiva. Il rapimento con il quale paiono abbandonarsi a sensazioni imprecise ma violente è tanto più profondo quanto meglio gli attori sanno recitare; al punto che noi, disapprovando questo stato di cose, ci troviamo spinti a desiderare che recitino nel peggior modo possibile. Di tal fatta, dunque, è il teatro che ci troviamo di fronte: un teatro che finora si è dimostrato ben capace di trasformare quei nostri fiduciosi amici che chiamiamo i figli di un’era scientifica, in una massa intimidita, credula, ‘ammaliata’» (‘Scritti teatrali’).

Quanto più queste parole suonano drammaticamente vere, oggi, nell’era dell’imbonimento massmediatico, della spazzatura televisiva, del marcio spacciato come Arte (con la maiuscola, s’intende!).

Si può rincarare ulteriormente la dose, prendendo a prestito le parole infiammate di un grande eretico del teatro: Antonin Artaud — «Alcuni vanno a teatro come andrebbero al bordello. Piacere furtivo. Eccitazione momentanea: il teatro per costoro non rappresenta altro. È come l’immondezzaio del loro bisogno di godere. L’ipertrofia del teatro-svago ha creato, al fianco e al di sopra della vecchia idea di teatro, l’esistenza di un certo gioco dalle regole facili che è oggi per la maggior parte il teatro stesso e che riveste l’idea di teatro in sé. Si può dire pertanto che esistono attualmente due teatri: un falso teatro facile e artificioso, il teatro dei borghesi, militari, benestanti, commercianti, mercanti di vino, professori d’acquerello, avventurieri, puttane e premi Roma; e un altro teatro che si mette dove può, ma che è il teatro concepito come il compimento delle più pure aspirazioni umane.» (‘Il teatro e il suo doppio’).

Per ciò, è bene ricordare e tenere sempre incisi nel cuore e nella mente che la nostra espressione performativa, il nostro sforzo di mettere in scena un evento teatrale (recital o musical o dramma che sia) nasce da quella medesima aspirazione interiore che ci spinge a tentare di incarnare nella vita la nostra ricerca esistenziale.

Jerzy Grotowski inquadra molto bene il concetto: «Noi non intendiamo fornire svago a quelle persone che vanno a teatro per soddisfare un’esigenza sociale di contatto con la cultura, cioè avere qualcosa di cui parlare con gli amici ed essere in grado di dire che si è andati a vedere questo o quel dramma e che lo si è trovato interessante. Non siamo disposti ad appagare le loro esigenze culturali perché tutto ciò è falso. Né siamo al servizio di coloro che vanno a teatro per distendersi dopo una giornata di duro lavoro. Tutti hanno diritto a rilassarsi dopo il lavoro ed esistono diverse forme di svago adatte allo scopo, come certi tipi di film, cabaret, music-hall e parecchie altre cose del genere. Ci interessa invece quello spettatore che nutre autentiche esigenze spirituali e che desideri realmente mettersi alla prova, per mezzo di un confronto diretto con la rappresentazione. Ci interessa quello spettatore che non si arresta a uno stadio elementare di integrazione di sé, pago della sua angusta, geometrica rigidità interiore, che sa esattamente ciò che è bene e ciò che è male. Non è a lui che si sono rivolti El Greco, Eschilo, Thomas Mann e Dostojevskji, ma a colui che subisce un processo evolutivo senza fine, la cui inquietudine non è generica, ma indirizzata verso la ricerca della verità su se stesso e sul senso della vita. Si tratta di una élite, ma non una élite determinata dall’estrazione sociale o dalla posizione economica dello spettatore e neppure dal suo grado d’istruzione. L’operaio che non è mai stato al liceo può essere in grado di attuare questo processo creativo di ricerca di sé, mentre il professore universitario può essere, a questo riguardo, morto, permanentemente forgiato, ricomposto nella terribile rigidità di un cadavere.» (‘Per un teatro povero’).

Ecco. Abbiamo cercato di appuntare qualche indicazione di base, con l’ausilio dei più grandi teatranti del Novecento, allo scopo di chiarire un poco la nostra concezione di teatro. Tenendo tuttavia ben presente che noi apparteniamo ormai al Terzo Millennio e che è necessario elaborare un nuovo modo di fare teatro.

A questo punto, la teoria deve necessariamente sfociare nella pratica e, per fare ciò, nessun metodo, nessun manuale, nessuna ricetta può sostituire l’esperienza e l’apprendimento diretti.

Come ebbe a dire Konstantin Stanislavskij — «Gli uomini, in arte, non si incontrano mai per caso. C’è chi arde del desiderio di rendere partecipi delle proprie esperienze, c’è chi vuole andare avanti. Nell’arte è impossibile restare fermi: o si va avanti, o si va indietro — le forze interiori diventano sempre più robuste e, crescendo, cercano sempre nuove vie per esprimersi in azione creativa.» (‘L’attore creativo’).

In gergo teatrale, esiste una netta distinzione fra “il morto” e “il vivo”, di cui Charles Dullin esemplifica molto bene un particolare aspetto: «Le polemiche letterarie, le inchieste, le teorie, quasi sempre servono a dissimulare un bisogno di pubblicità alquanto spregevole. Nella repubblica delle lettere sono stati introdotti i buoni sistemi commerciali dei droghieri e dei vinai. Sono convinto che tutte le polemiche e le teorie non porteranno a niente. Quando si tratta di teatro io credo a quello che vedo. La povertà, la mancanza di risorse e di mezzi possono costituire un ostacolo, ma bisogna avere il coraggio di confessare l’imperfezione del lavoro compiuto. La nostra cultura drammatica deve interessare noi soltanto. Tentiamo di vivificare le nostre idee; esprimiamole teatralmente; siano esse l’anima di tutto quello che creiamo; ma non parliamone, più di quanto un uomo onesto non parli della propria onestà.» (‘La ricerca degli dèi’).

L’Italia, patria dell’arte, negli ultimi decenni è decaduta in un girone infernale gremito di mallevadori privi di gusto artistico da una parte, e di raccomandati privi di talento dall’altra (quanto al genio, non osiamo nemmeno parlarne!). Perciò, chi — come noi — opera per cercare di restituire dignità artistica all’Italia, dovrà ricordare le parole del caro e più volte citato Pier Paolo Pasolini, con cui chiudiamo (come abbiamo aperto) il presente articolo: «per quanto fare del teatro in Italia costituisca un'impresa pressoché impossibile, ciò non significa che non la si debba tentare».