SOLIDARIETÀ AL POPOLO SAMI




«L’unità nell’uniformità è un assurdo. L’unità deve realizzarsi attraverso le diversità». Così Mère sintetizza egregiamente alcune affermazioni basilari più volte ribadite nel mirabile saggio The Ideal of Human Unity di Sri Aurobindo.

Mentre siamo gioiosamente impegnati nelle prove del dramma vichingo Erik, il nostro cuore si volge spontaneamente ai Sami, l’unico popolo indigeno europeo — ubicato in Scandinavia e rappresentante un tesoro antropologico inestimabile — che da alcuni anni è (nuovamente) sotto attacco.

I Sami (sámit, nella loro lingua) sono una etnia ugro-finnica; essendo originariamente nomadi, vivono sparsi in un’area fenno-scandinava da loro denominata Sápmi (dal baltico *žēmē, “terra”), comprendente la penisola di Kola (in Russia, con 2.000 individui), la Finlandia (7.000 individui), la Norvegia (40.000 individui), la Svezia (20.000 individui); per un totale di 75.000 persone.

Le prime notizie attendibili su questo popolo si ritrovano nella Storia delle guerre di Procopio di Cesarea edito nell’anno 551 della nostra era, seguito dal Ragnarsdrápa (“Inno a Ragnar”) composto da Bragi Boddason nel IX secolo. La prima opera in cui si parla estensivamente degli usi e costumi dei popoli nordici è l’Historia de gentibus septentrionalibus pubblicato da Olao Magno a Roma nel 1555.

Seguendo la loro vocazione nomade, i Sami non hanno uno status politico indipendente, ma possiedono una cultura raffinata, una loro lingua, una storia articolata, una tradizione ancora viva. Essi non contemplano al loro interno movimenti richiedenti un’autonomia politica completa; hanno però ottenuto negli anni il diritto all’autodeterminazione e oggi esistono varie istituzioni parlamentari Sami (in Finlandia dal 1973, in Norvegia dal 1989 e in Svezia dal 1993), volte a difendere i loro legittimi interessi e a preservare l’autonomia culturale. Inoltre, dispongono di una propria bandiera (da noi riprodotta in apertura dell’articolo) e, dal 1986, di un proprio inno.

I Sami hanno caratteristiche genetiche prevalentemente caucasoidi (è stato ipotizzato che siano frutto di una mescolanza di popolazioni europoidi e mongoloidi), benché i loro idiomi appartengano al ceppo linguistico ugro-finnico della famiglia uralica, diffusa nell’Europa settentrionale e nell’Asia nordorientale, la cui letteratura era una volta esclusivamente orale, sebbene oggi molte poesie e canti (joik) siano tradotti e pubblicati soprattutto nelle tre lingue sami principali (sami settentrionale, sami di Inari e sami skolt).

Il loro modo di accostarsi al soprannaturale è di tipo sciamanico (lo sciamano effettua tra l’altro una serie di riti propiziatori per cercare di prevedere l’avvenire, utilizzando un tamburo magico). Tra le antiche divinità principali vi è la Madre-Terra che occupa una posizione preminente. Per i Sami, come per tutti gli altri popoli indoeuropei dell’antichità, l’anima è immortale e, al momento del trapasso, si separa dal corpo e continua la propria avventura. Inoltre, i Sami si affidano al potere magico dei sogni, interpretandolo come una via di comunicazione con il mondo dei trapassati. In tal senso, le analogie con gli aborigeni australiani appaiono intriganti, con tutti i dovuti distinguo.

Un tempo i Sami erano principalmente allevatori di renne, pescatori e cacciatori; abitavano in capanne coniche trasportabili chiamate kota, o in tende chiamate lavvu. Il loro mezzo di trasporto tradizionale era la slitta trainata da renne, assieme agli sci e alle racchette da neve (le cosiddette ciaspole) per cavalli, utilizzati dalle popolazioni locali fin dall’età del bronzo. Nel corrente mese di aprile [2020] è stato pubblicato un articolo sulla rivista scientifica “Antiquity” in cui si divulgano i risultati di scoperte recentissime avvenute sui monti della Norvegia centrale (lungo il passo di Lendbreen, per la precisione), dove i ghiacciai si sono sciolti a causa dei cambiamenti climatici in corso, mettendo in luce (a partire del 2011 e soprattutto nell’estate del 2019) una serie di reperti vichinghi in stato di perfetta conservazione, lungo alcuni sentieri percorsi per centinaia di anni (a partire dall’età del ferro e fino all’intero periodo vichingo). Tra le centinaia di reperti rintracciati, James Barrett (archeologo dell’università di Cambridge, il quale collabora con il progetto norvegese fin dal 2011) segnala in particolare «un pezzo di tessuto quasi perfettamente conservato, ciaspole davvero notevoli, frecce con l'impennata perfettamente conservata e con il tendine ancora in posizione, la colla che ha incollato le piume all'albero. Si tratta di reperti alquanto notevoli, ibernatisi un migliaio di anni fa. Ma non sono tanto i singoli oggetti, quanto la storia che raccontano esaminati nel loro insieme» relativamente ai popoli che li hanno fabbricati e utilizzati lungo il passo montuoso in questione.

Per tornare ai Sami, in origine essi trascorrevano l’inverno nelle terre in pianura, trasferendosi nei pascoli montani nei mesi più caldi. Il loro habitat naturale, nel suo complesso, è da sempre un vasto territorio in cui lande innevate si alternano a foreste di betulle. Ancora oggi, visitando questi territori, non è difficile riconoscere gli appartenenti a questo antico popolo, grazie ai coloratissimi costumi tradizionali, così come non è difficile accorgersi di quanto queste persone custodiscano gelosamente le proprie tradizioni culturali, musicali e linguistiche.

Il nomadismo sopravvive ancora oggi, con gli allevatori di renne, sebbene, attualmente, essi siano diventati perlopiù stanziali e vivano in piccoli paesi, tra i quali spicca Kautokeino (in Norvegia), in cui esistono diverse loro istituzioni: il Beaivváš Sami Theatre, la Sami University College e il Nordic Sami Research Institute. Pure la città norvegese di Karasjok è un importante centro formato da circa 3000 abitanti, sede del parlamento Sami norvegese e di altre istituzioni, quali l’emittente radiofonica NRK Sami Radio, il museo Sami Collections, i centri culturali Art Centre e Sami Specialist Library, la struttura ospedaliera Specialist Medical Centre. Tuttavia, resta Kautokeino (Guovdageaidnu, in sami) la città maggiormente abitata da persone di etnia Sami (il 90% della popolazione ivi risiedente utilizza come prima lingua il sami), considerata quindi la loro capitale culturale. Si tratta del comune più grande della Norvegia, con un’estensione di 9708 km² (la densità di popolazione è inferiore a un abitante per chilometro quadrato).

Le loro tradizioni hanno resistito non solo allo scorrere del tempo, alla prospettiva di una vita più semplice (in aree più temperate e sicuramente meno ostili che si possono trovare spingendosi verso sud), ma anche alle persecuzioni di cui il popolo Sami è stato vittima nel secolo scorso. Persecuzioni di cui si parla poco, rimaste nascoste per anni, ma che raccontano storie di ghettizzazione e di un tentativo di cancellare la cultura di questo popolo nordico attraverso un processo di assimilazione da parte delle popolazioni del sud. L’insegnamento e l’uso della loro lingua, per esempio, era vietato nelle scuole e la società non Sami spesso guardava questo popolo come a una razza inferiore!

Dopo la persecuzione razziale, seguì il tentativo dei coloni nordeuropei di cancellare la loro cultura; i Sami furono vittima, nei primi decenni del Novecento, di un programma di sterilizzazione forzata: in Svezia, nel 1922, venne aperto un centro statale per gli studi eugenetici al fine di migliorare la presunta (e fantasiosa!) “razza nordica”. Le testimonianze delle persecuzioni nei confronti dei Sami sono riscontrabili ancora nei documenti dell’epoca, dove a fianco dei dati raccolti dai medici sono state ritrovate numerose foto di persone costrette a posare nude e lasciare che gli scienziati studiassero le loro caratteristiche fisiche per tentare di tracciare un profilo razziale comune (come racconta il film “Sami Blood”, datato 2016, lungometraggio della regista sami svedese Amanda Kernell; qualche anno prima, nel 2002, il prolifico regista russo Alexander Rogozhkin aveva realizzato il film storico “The Cuckoo”, incentrato sulle atrocità perpetrate sui Sami durante la seconda guerra mondiale). Questa persecuzione raggiunse il livello più acuto di atrocità quando, proprio con l’intento di “purificare” la fantomatica razza nordica, si arrivò per l’appunto alla sterilizzazione forzata di migliaia di persone.

Dopo un secolo di battaglie in cui sono riusciti a conquistare la loro giusta autonomia, i Sami sono di nuovo a rischio, per lo meno in Finlandia. Il Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha dichiarato illegittime e in violazione del diritto di autodeterminazione le decisioni della Corte Suprema Amministrativa finlandese, che nel 2011 e nel 2015 ha conferito a 97 persone non Sami l’eleggibilità nel Parlamento Sami della Finlandia. Un’estensione che è andata contro il volere del comitato elettorale dell’assemblea, il cui intento è di “assorbire culturalmente” (ovvero, traducendo il politichese nel linguaggio comune: di condannare all’estinzione) il popolo Sami. Infatti, introdurre un centinaio di individui non Sami nel Parlamento Sami, oltre a costituire una violazione del diritto di autodeterminazione, se non sarà immediatamente corretta, potrebbe compromettere la sopravvivenza del popolo Sami. Insomma, si tratta dell’ennesimo attacco neoliberista alle diversità. Infatti, ai signori dell’economia globale i Sami danno parecchio fastidio, dato che allo stato attuale questi ultimi vantano il monopolio dell’allevamento di renne nei loro territori, oltre ad avere diritto a utilizzare autonomamente e in maniera esclusiva le risorse di quel territorio. La corsa alle risorse naturali che si ritiene siano presenti nel sottosuolo di quell’area geografica spingono i poteri forti a tentare di mettere le loro grinfie su tali territori, con l’intento di sfruttarli a danno dei loro abitanti.

In Svezia e Norvegia, i Sami godono di speciali diritti economici, ma non in Russia e in Finlandia. In particolare, il governo finlandese si ostina a non ratificare la Indigenous and Tribal Peoples Convention del 1989, volta a garantire loro diritti economici e culturali. Per questo il Comitato per i Diritti Umani dell’Onu ha appoggiato le denunce presentate dal presidente del Parlamento Sami finlandese, Tiina Sanila-Aikio, e ha dichiarato illegittime le decisioni della Corte Suprema sulla candidabilità di 97 nuove persone tra il 2011 e il 2015. Secondo quanto ha affermato Yuval Shany, presidente del Comitato Onu per i Diritti Umani, «il diritto all’autodeterminazione interna prevede che siano le popolazioni indigene a definire l’appartenenza al gruppo. Sebbene lo Stato possa esercitare poteri di supervisione sulle procedure, al fine di facilitare il funzionamento delle istituzioni democratiche delle popolazioni indigene, tali poteri dovrebbero essere applicati con attenzione, sulla base di criteri ragionevoli e obiettivi».

Spiace che la Finlandia mostri un simile atteggiamento prevaricatore e xenofobo… La sua storia recente vanta molti meriti: durante la seconda guerra mondiale non esito a combattere sia Stalin, sia Hitler; stando ad alcune valutazioni internazionali, la Finlandia è dotata del sistema educativo migliore d’Europa, oltre a essere stata classificata come uno degli stati più pacifici del mondo e nel quale si gode la più alta qualità della vita (in base a parametri più economici che sociali, visto che detiene il macabro titolo di paese con il più alto tasso di omicidi dell’Europa occidentale e ha di gran lunga la più alta percentuale di suicidi dei paesi nordici, oltre al fatto che l’alcolismo è la principale causa di morte; inoltre, la Finlandia si trova al terzo posto nel mondo, dietro solo a Stati Uniti e Yemen, per possesso d’armi).

I Sami non possono essere cancellati né discriminati o trattati con disprezzo: la loro identità è preziosa al pari di qualunque altra etnia mondiale, piccola o grande che sia.

Come sappiamo, nel corso della storia contemporanea sono stati barbaramente decimati i Nativi d’America e numerose etnie africane; attualmente, oltre agli atti di ostilità nei confronti dei Sami, diverse altre etnie sono in pericolo nel mondo: conosciamo tutti le violente rappresaglie contro le tribù amazzoniche (dallo sterminio dei Nahua risalente ai primi anni Ottanta, a quello degli Akuntsu del 1995; i Murunahua e i Kanoé sono stati decimati negli anni Novanta; della tribù Amikoana pare siano rimasti solo 5 individui, dei Negarotê una quarantina e dei Mawayana una cinquantina; recentemente gli Awá sono stati definiti “la tribù più minacciata del mondo” perché il loro territorio è stato invaso da taglialegna e allevatori illegali, che stanno distruggendo la loro foresta a ritmo vertiginoso; oltre all’aggressiva invasione attualmente in atto delle terre dei Mashco-Piro). Meno noti, invece, altri soprusi attualmente in corso. Ne citiamo alcuni:

  • il lento genocidio in atto nel Myanmar, ai danni delle due etnie Rohingya e Kachin;
  • i campi di concentramento in Cina: i famigerati Laogai, dove vengono detenuti prigionieri politici e minoranze etniche (compresi tibetani), costretti a lavorare per 18 ore al giorno (puniti con la denutrizione o la tortura se rallentano i ritmi di lavoro); si stimano più di mille Laogai, con qualcosa come 8 milioni di persone rinchiuse;
  • sempre in Cina, centinaia di migliaia di adepti della Falung Gong vennero deportati o uccisi nel 2006, allo scopo di espiantare i loro organi (che, grazie alle loro pratiche, si presentano particolarmente sani);
  • il campo di detenzione di Clint, negli Stati Uniti d’America, a pochi chilometri da El Paso, al confine con il Messico, dove nel 2019 sono stati rinchiusi 250 minori non accompagnati, tenuti in condizioni disumane;
  • la ventina di campi di concentramento presenti in Corea del Nord, in particolare sei Kwanliso in cui sono reclusi circa centomila individui, prigionieri politici senza processo, costretti ai lavori forzati per 12 ore al giorno, non di rado con la sola colpa di essere parenti di presunti dissidenti;
  • i campi profughi disseminati nel mondo, in cui vengono rinchiusi i migranti irregolari — in molti casi, si tratta di vere e proprie colonie penali (in Turchia, ove si trovano reclusi più di tre milioni di siriani; in Libia, dove le donne vengono stuprate in continuazione; su alcune isole australiane, come quella di Nauru, che contano circa duemila detenuti).

Noi tutti dovremmo essere indignati e far sentire il nostro grido di dissenso… Anche di questo la nostra rappresentazione teatrale intende farsi portavoce.

Per limitarci a enumerare le popolazioni indigene del mondo, esse costituiscono all’incirca il 5% della popolazione umana mondiale; il loro sterminio significherebbe lo sterminio di tutta l’umanità, essendo essi custodi della biodiversità e di tradizioni millenarie. Unità nella diversità, dicevamo, citando Mère e Sri Aurobindo.

E non solo il razzismo, ma anche il sessismo e lo specismo costituiscono due tematiche a noi particolarmente care.

In merito al sessismo, sarebbe ora che l’umanità smettesse di discriminare le donne, e questa nostra rappresentazione teatrale vuole essere, tra le altre cose, un grande omaggio alla Donna. Il finale del dramma ne costituisce un evidentissimo auspicio.

Infine, in riferimento allo specismo, siamo persuasi che tutte le specie viventi andrebbero rispettate al pari di quella umana. Chi siamo noi animali umani per pretendere di causare la morte e la sofferenza degli animali non umani?

Madre Terra ci implora di rinsavire: la sua pazienza sta per giungere al termine.